Senza veli

, di Giorgio Anselmi

Senza veli

Secondo il filosofo John Rawls, per fondare una società giusta occorre che gli uomini ne stabiliscano i principi dietro un provvidenziale velo d’ignoranza. Solo così diventeranno capaci di agire come esseri razionali. Liberi da interessi, presenti e futuri. Due recenti fallimenti dimostrano la profondità dell’assunto rawlsiano. La mancata approvazione della legge elettorale italiana ed i finora vani tentatitivi di dotare l’Unione europea di un bilancio per i prossimi anni.

In Italia andremo di nuovo a votare con la Legge Calderoli. Una porcata, secondo lo stesso proponente. Ribattezzata dunque il «Porcellum» dal politologo Giovanni Sartori. Approvata in fretta e furia a fine 2005 dalla maggioranza di centro-destra. E concepita come una pistola alla tempia degli avversari politici, i probabili vincitori. Previsione puntualmente avveratasi. Dopo due anni il governo Prodi fu costretto a gettare la spugna e la parola tornò agli elettori. Con lo stesso sistema elettorale lo schieramento berlusconiano ottenne la maggioranza in entrambe le Camere, ma fu costretto ad imbarcare oves et boves. Prima per assicurarsi la vittoria e poi per conservare la maggioranza.

Roberto D’Alimonte ha dimostrato, dati alla mano, che non solo Prodi, ma anche lo stesso Berlusconi avrebbe avuto una maggioranza più solida e coesa col vecchio «Mattarellum». Ci guarderemo bene dal dire che l’ultimo governo del Cavaliere è caduto per questo motivo. Ci basta concludere che, spesso, chi di spada ferisce di spada perisce.

Porcata o «Porcellum» che sia, in questa legislatura tutti i partiti sembravano decisi a cambiare la legge elettorale. Nonostante gli accorati appelli del Presidente Napolitano, non se n’è fatto nulla. È mancato di nuovo il velo d’ignoranza. Tutti i protagonisti erano attenti ai loro interessi immediati. I probabili vincitori e i probabili perdenti. Poteva nascere una legge elettorale giusta? Giusta per gli uni e giusta per gli altri? Tenendo conto che i vincitori potranno essere un giorno sconfitti e viceversa? Non poteva nascere e non è nata. Amen.

Ancor più istruttive per noi federalisti le lunghe e finora infruttuose trattative sul quadro finanziario dell’Unione europea per i prossimi anni. Siamo in una crisi epocale. I disoccupati sono ormai un esercito. In alcuni Paesi, a cominciare dalla Grecia, milioni di persone lottano per la sopravvivenza. Dalla «società dei due terzi» stiamo passando alla proletarizzazione del ceto medio.

In questo quadro sarebbe necessario almeno raddoppiare il bilancio dell’Unione, per mettere in cantiere un grande piano di investimenti. Come sostengono i federalisti e ormai anche tutte le persone di buon senso. Si potrebbe farlo a costi irrisori. Addirittura a tassi reali negativi. Su cosa verte invece il dibattito? Sarebbe già una consolazione se riguardasse solo l’aumento o la diminuzione del bilancio in rapporto al PIL. Magra consolazione, perché ci si accapiglia ormai sullo 0,01 %. Ma non basta. Le discussioni più roventi sono sui singoli capitoli di spesa. Ognuno vuol tirare la coperta dove gli fa più comodo: agricoltura, pesca, ambiente, fondi di coesione, ecc. E naturalmente sorgono le più strane e variabili alleanze per strappare coi denti qualche risultato e strombazzarlo poi davanti ai propri elettori. Direbbe Borges: 27 calvi che si disputano un pettine.

In questo caso è l’assetto confederale a impedire il formarsi del velo d’ignoranza. Il bilancio va approvato all’unanimità ed è fondato in gran parte sui contributi nazionali. Ogni Stato è quindi in grado di conoscere sempre la differenza tra entrate ed uscite. Per di più gode del diritto di veto con cui bloccare le decisioni che gli risultano sgradite. Non vorremmo essere nei panni del povero Van Rompuy, costretto a barcamenarsi tra 27 litigiosi governi nazionali. L’esito è già scontato. Più che un bilancio, un bilancino.

Dalle più grandi complessità, disse una volta Winston Churchill, nascono talvolta le più grandi semplicità. Qui non servono correttivi. Occorre un taglio netto. Solo le istituzioni federali possono operare con quel velo d’ignoranza che antepone l’interesse dell’Europa e dei suoi cittadini ai meschini calcoli nazionali. Per convincersene proponiamo un esperimento mentale che forse non sarebbe dispiaciuto a Rawls. Supponiamo che i capi di Stato e di governo, entrando in una riunione del Consiglio europeo, come d’incanto dimenticassero di quale Stato sono il leader. La Merkel se il presidente francese o il primo ministro della Grecia, Hollande se il presidente del consiglio italiano o il capo del governo dell’Estonia e così via. E ipotizziamo poi che in ogni riunione si dovesse votare e prendere delle decisioni, a maggioranza assoluta o a maggioranza qualificata Lasciamo immaginare al lettore se le conclusioni di tanti inconcludenti vertici di questi ultimi anni sarebbero state le stesse.

1. L’articolo è stato orginariamente pubblicato su l’Unità europea.

2. Fonte dell’immagine: Flickr

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