Il commento di Eurobull sul 25 aprile, Giorno della Liberazione, in un anno particolare come il 2022

Che vuol dire liberazione?

, di Davide Emanuele Iannace

Che vuol dire liberazione?
Fonte: Partigiani garibaldini in piazza San Marco a Venezia nell’aprile 1945, Wikimedia Commons, https://it.wikipedia.org/wiki/Resistenza_italiana#/media/File:Venezia_aprile_1945.jpg

Mai come quest’anno, il 25 aprile cade in un momento storico in cui ricordare, re-immaginare e ripensare al senso della liberazione è necessario ed è evidente. Lo è, soprattutto, al netto delle parole dell’ANPI, l’organizzazione civica che si rifarebbe, almeno nelle parole dello statuto, all’ideologia partigiana.

Della guerra in Ucraina se n’è parlato, se ne parla, se ne parlerà ancora. Lo abbiamo fatto in diverse istanze qui su Eurobull, tipo qui e qui, portando avanti diversi punti di vista. Ora però c’è la necessità di fare un salto indietro, fuori dall’area geopolitica, e balzare piuttosto all’interno del nostro paese, ancora meno che in Europa.

Inutile girarci intorno, ma l’Italia è una nazione che è uscita fuori, nata, dalla guerra civile, dalla polvere di fratelli che uccidevano fratelli. Claudio Pavone ha più volte ricordato di come si sia spesso cercato di rimuovere questo dettaglio della storia della Resistenza e della lotta al nazifascismo [1]. Il mito nazionale dell’Italia unita nella lotta al fascismo ne esce chiaramente danneggiato, e quella che sembra uscire anche dal dibattito storiografico più recente, in cui non ci si addentra, è che bisogna riconoscere tanto l’esistenza di antifascisti che l’esistenza di fascisti, sia prima che durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale. Spesso lo stesso confine tra aderente al fascismo e no era sottile come un foglio di carta di bamboo. [2].

Naturale che da parte italiana si voglia spesso declinare tutta l’esperienza, ventennale, fascista, come un errore, forse come un abbaglio, come un momento di apatia collettiva, come una deviazione dal percorso che però non è colpa degli italiani, ma di una ristretta cerchia di gerarchi e di fascisti – il Re, i generali che non spararono sulla folla, Mussolini, soci e famiglia – e non piuttosto che ammettere che, come tanti popoli prima di noi, e come tanti altri dopo di noi, le autocrazie si impongono anche perché le popolazioni restano silenti mentre le minoranze sono cancellate e annichilite, i diritti distrutti, le volontà annebbiate da sogni di gloria e di potere.

Perché è importante ricordare un po’ quelle che sono le colpe di un paese che troppo spesso se le dimentica? Perché, e qua dobbiamo ammetterlo dolorosamente, è stato con il conflitto che si è usciti fuori dal buco oscuro del fascismo e del nazismo. Non è stato possibile trovare un compromesso, non è stato possibile trovare un accordo che portasse le parti a considerare liberamente la posizione altrui. Questo capita in ogni estremità dello spettro politico – e a volte nemmeno solo alle estremità.

Il 25 aprile ce lo ricorda. Ci ricorda il dolore, ci ricorda la morte che è scaturita da un conflitto che vedeva confrontarsi fondamentalmente due schieramenti, sfaccettati, imperfetti, ricchi di contraddizioni come tutti i fenomeni umani possono essere e sono, che però rappresentavano due poli del pensiero: da un lato il diritto a determinare il proprio futuro fuori dalle maglie del potere fascista, dall’altro l’idea che ci fosse una Patria, unica e fascista, che era giusta da difendere.

Il valore dei partigiani, dai comunisti ai cattolici passando per gli ex-militari, fu quello di prendere una decisione drastica e sicuramente né facile né immediata, sofferta e che avrebbe portato a sofferenze ulteriori. Non per questo non fu presa. Fu il valore del coraggio di sapere da che parte essere, esserne quantomeno convinti radicalmente, al punto da togliere vite e perdere le proprie per questa causa.

Eppure, l’ANPI sembra aver dimenticato questa realtà, nel momento che dinanzi un’invasione riesce a non prendere posizione chiara, o anzi, prendendola contro l’aggredito. Perché quando vi è un potente e un debole e ci si nasconde dietro la blanda neutralità pacifista, la verità è che si prende il lato dell’aggressore. Vale per l’Ucraina, vale per la Palestina e per tutte quelle situazioni in cui popoli, etnie, nazioni, vengono trattate banalmente come piccoli pezzi di scacchiere in cui più importanti piani geopolitici vanno dispiegandosi.

E chiariamo, ancora, che questa è una scelta totalmente politica. Perché ci sono diversi modi di leggere un conflitto. Vi è l’analista geopolitico, vi è colui che fa una semplice e schietta analisi di un fenomeno – e da loro ci si aspetta la complessità, quella vera e non parziale. Un analista, e qui non stiamo facendo questo tipo di analisi ora, analizza il percorso e il portato storico delle due nazioni, di ciò che le circonda, ricostruisce un percorso. Non getta colpe, né crediti e discrediti, ma si limita al freddo calcolo delle scelte e delle opportunità. Un analista potrebbe suggerire soluzioni e futuri diversi per l’Ucraina e per la Russia, così come per gli attori coinvolti, quali l’Unione Europa.

Le conclusioni geopolitiche sono raramente morali nel senso più diretto del termine. È mero pragmatismo, mero calcolo – i morti sono solo numeri, le scelte solo azioni. Questo è un tipo di analisi che, sicuramente, non trova spazio né luogo all’interno dei circoli dei talk show. Hanno bisogno di tempo, molto tempo.

C’è poi l’analisi politica, che non è geopolitica. È diversa, perché è l’analisi che prende piede dalle considerazioni personali dei soggetti, dai loro orientamenti – questa, ad esempio, è un’analisi politica e di giudizio. Soprattutto, è sulla politica che si può discutere e dibattere in maniera più larga, perché è questo che fa la politica, mira al dibattito e al confronto quando è salutare e in salute.

Si può commentare politicamente la guerra in Ucraina prendendo schieramento, criticando la Russia o la NATO, gli USA, o la Cina, il governo ucraino. È una scelta politica – che ritengo scellerata – quella di organizzazioni come l’ANPI di prendere lato con la Russia. Perché, di fatto, i loro inni alla pace a tutti i costi (cioè, a costo solo degli ucraini), è prendere lato con la forza d’invasione. C’è pace e pace. C’è la pace con il calcio del fucile puntato al collo, così come c’è la pace costruita col consenso e con la cooperazione.

Se pensiamo alle proposte di pace in Ucraina, c’è la pace in cui la nazione, invasa, mantiene il controllo del suo territorio; c’è la pace imposta da un governo fantoccio filo-russo nel momento in cui Kiev cadesse insieme alle diverse roccaforti governative, semplificando di moltissimo il discorso. Pensare di dover spingere alla pace il governo ucraino perché così si ridurrebbero i danni non è pace, è assenso al conquistatore. È dichiarare al mondo che la regola è, e rimane, che il forte mangia il debole e che in un mondo di lupi, chi morde al collo per primo è sempre quello che vince. Inutile pensare che ci si fosse lasciati alle spalle questo tipo di mentalità da cartaginesi e romani. L’uomo è, e rimane, un animale spesso violento, irascibile, tendente al conflitto, che è controllato solo nel momento in cui abdica alla cultura e a giudizi superiori – come la legge. Sono queste le strutture che permettono di controllare gli impulsi, primordiali o no che siano, che spingono agli atti violenti che vediamo prendere forma nelle zone contese tra le forze governative e quelle ribelli e russe in Ucraina. Violenza che si deve fermare. Ma non si deve fermare con la resa. Si deve fermare con il ritiro degli aggressori.

Quanto costerà questo? Molto. Perché, e questa è un’altra verità fondamentale del mondo, gli invasori saranno sempre restii ad arrendersi. Putin ha bisogno di una vittoria, signore di un impero decadente che conta sempre di più come satellite sulle mappe delle nuove e vecchie superpotenze – futuro non dissimile da quello europeo, si potrebbe asserire in alcuni casi. Concedergli la vittoria calmerà il suo spirito? Solo fino alla prossima crisi interna, che sia sua o del suo successore, su cui bisognerà prima o poi iniziare a pensare. Dopotutto, il modus operandi che abbiamo visto nel 2022 non è dissimile a quello del 2014 in Crimea, nel 2011 in Siria, nel 2008 in Georgia. Si è fatto sempre un passo indietro, in nome degli interessi geopolitici e politici di questo e quell’attore, per dare spazio a quella asfissia che i russi dicono essere stringente e che li spinge quindi a strangolare i propri vicini quando fanno mosse a loro poco gradite. Certo, qualcuno obbietterebbe che è quello che fanno le potenze, le grandi potenze, le superpotenze. Si possono condannare anche loro, non è un problema.

Tornando al tema di oggi, il 25 aprile, a cosa voglia dire la parola liberazione nel XXI secolo. Ecco, vuol dire tante cose. Vuol dire immaginare un mondo diverso, che si prende e difende non solo con le parole, ma anche con i fatti. Vuol dire guardare alla guerra in Ucraina e rendersi conto di quanto la pace costruita possa essere fragile, soprattutto di cosa bisogni cambiare per togliere le radici di conflitti simili, o almeno contenerli.

L’utopia deve essere sognata, perché ci si tenda quantomeno verso. Non vuol dire che sarà raggiunta. Il mondo è imperfetto, sarà sempre imperfetto come i suoi abitanti. Questo non vuol dire che non bisogni tentare, che dietro la scuola e la scusa del pragmatismo e del razionalismo geopolitico bisogni ripetere, ancora ed ancora, gli schemi del passato in un loop quasi fantascientifico ed eterno.

Il mondo cambia, possono cambiare le persone. A volte ci saranno persone ostili al cambiamento. A volte ci si potrà parlare, altre volte no. A volte un paese potrà trovare la sua strada senza essere invaso, altre volte invece dovrà combattere per la sua indipendenza. Abbandonare un popolo a sé stesso in un momento simile vuol dire arrendersi dinanzi le forze del passato, le forze della violenza, e rinnegare tutto ciò che in Europa e non solo si è fatto per tentare di rendere il pianeta un posto migliore, tra mille errori e difetti. Dovremmo evitare di farne un altro.

Note

[1Per approfondimenti: Claudio Pavone, L’eredità della guerra civile e il nuovo quadro istituzionale, in Lezioni sull’Italia repubblicana, raccolta di scritti di autori vari, Roma, Donzelli, 1994

[2Per approfondimento, Luciano Zani, Resistenza a oltranza. Storia e diario di Federico Ferrari, internato militare italiano in Germania, Milano, Mondadori, 2009

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