I richiedenti asilo intrappolati al confine turco-greco. Cause e problematiche dell’incerto rapporto tra Unione Europea e Turchia

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I richiedenti asilo intrappolati al confine turco-greco. Cause e problematiche dell'incerto rapporto tra Unione Europea e Turchia
Autore: Achilleas Zavalis, UNHCR

Cosa sta succedendo alle porte dell’Unione Europea alla luce degli interessi che muovono le scelte del presidente Erdoğan e dei leader europei. Ne abbiamo parlato con Mariano Giustino, corrispondente dalla Turchia per Radio Radicale.

Il confine tra Grecia e Turchia è una frontiera cruciale per l’Unione Europea, non solo in termini strategico-politici bensì anche in termini di valori identitari. La natura brutale e simbolica di questa frontiera era stata rivelata dalla crisi migratoria del 2015, innescata da quattro anni di guerra in Siria. Tuttavia, oggi, a cinque anni di distanza da quella crisi e a un mese dallo scoppio di un’altra, legata agli stessi luoghi e alle stesse dinamiche geopolitiche, torna ad essere necessario affrontare una riflessione in merito. Una riflessione che intende – e deve – essere plurale per poter spiegare la complessità di quei confini, di mare e di terra, dove nel 2015 si definì quel significato profondo delle politiche migratorie dell’Unione Europea che oggi viene messo a nudo di nuovo.

La crisi migratoria al confine tra Grecia e Turchia

L’input che ha dato inizio a quest’ultima crisi migratoria si verifica giovedì 27 febbraio, quando il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan annuncia di voler aprire le frontiere con l’Unione Europea agli oltre 4 milioni di migranti residenti in Turchia, di cui oltre 3.6 sono siriani secondo l’UNHCR. La decisione di Erdoğan deriva direttamente da un episodio accaduto il giorno precedente in Siria, a Idlib, dove è in corso da mesi una battaglia che vede la Turchia e i ribelli siriani contrapposti al regime di Assad che, supportato dalla Russia, mira a riconquistare l’area. Come riporta il Norwegian Refugee Council, dal 1° dicembre 2019 a fine febbraio 2020 la crisi umanitaria di Idlib ha costretto oltre 900.000 persone ad abbandonare la città sotto assedio, creando il più grande sfollamento di massa nella storia del conflitto siriano, in corso ormai da 9 anni.

È in questo contesto che, come riportato da Al Jazeera, il 26 febbraio 33 soldati turchi rimangono uccisi in un attacco sferrato dalle forze siriane che fanno capo a Assad. La reazione di Erdoğan è immediata e bidirezionale: oltre a rispondere duramente tramite attacchi militari nella zona di Idlib, il presidente turco annuncia lo sblocco delle frontiere verso l’UE per richiamare l’attenzione internazionale sulla situazione nel nord della Siria e sul milione di profughi provocato dall’assedio che spinge verso il confine turco. In conseguenza all’annuncio di Erdoğan, a partire da quello stesso giovedì notte tantissime famiglie sfollate in Turchia decidono di provare a scavalcare il confine per raggiungere l’Europa: a distanza di poco più di una settimana, si stima che fossero già decine di migliaia le persone ammassate ai confini di terra e di mare tra la Turchia e la Grecia.

Le radici della crisi: background

Ma facciamo un passo indietro. Per capire a fondo questa storia è utile ripercorrere brevemente l’evoluzione delle relazioni euro-turche fino ad oggi. Lo abbiamo fatto innanzitutto grazie all’aiuto di Mariano Giustino, al quale abbiamo richiesto di tracciare un quadro riguardo l’evoluzione della concezione e delle posizioni in Turchia nei confronti dell’Unione Europea, in particolare alla luce degli ultimi sviluppi politici. Nella seconda parte invece l’analisi prosegue con un focus sulla Dichiarazione UE-Turchia del 2016, cruciale per una comprensione reale della crisi.

Relazioni euro-turche: a che punto siamo?

Il primo grande passo di avvicinamento tra la Repubblica di Turchia e la Comunità europea fu il riconoscimento reciproco come partner economici fondamentali, sancito dall’accordo di Ankara nel 1963. Fu poi nel 1999 che si inaugurò una nuova importante fase dei rapporti, con la decisione del Consiglio europeo di Helsinki di aggiornare lo status della Turchia a quello di paese candidato all’adesione. Secondo Mariano Giustino, corrispondente per Radio Radicale in Turchia ed esperto sul tema, «buona parte della società turca – quella giovane in particolare – ha sempre visto l’Unione Europea come un punto di riferimento a cui guardare in termini di valori universali e di diritti». Tuttavia, egli sostiene che «la percezione dell’Europa che hanno i cittadini turchi è andata a grandi linee di pari passo a quello che è stato l’andamento dell’agenda di Erdoğan e del suo partito, l’AKP, che salì al potere vincendo le elezioni nel 2002».

Giustino afferma infatti che fino al 3 ottobre 2005, data in cui si aprirono i negoziati di adesione, «l’entusiasmo in Turchia era elevato, con oltre il 70% dei turchi favorevoli all’ingresso nell’Unione Europea» e ricorda che «quando in Parlamento europeo si votò perché si desse seguito all’apertura dei negoziati di adesione, nell’aula si alzarono i cartelli col “sì” in tutte le lingue, anche in turco». Il giornalista sottolinea che nel periodo che va dal 2000 al 2004, definito dalla stampa turca ‘’La rivoluzione per l’Unione europea’’ sono state approvate da Ankara due revisioni costituzionali e otto “Pacchetti di riforma” per l’adeguamento all’acquis, un nuovo Codice Civile, un nuovo Codice Penale, l’abolizione della pena di morte e altre leggi di adeguamento dell’ordinamento giuridico e costituzionale turco all’ordinamento europeo.

Tuttavia, i progressi conseguiti dalla Turchia non bastarono a impedire il blocco di ben 17 capitoli del negoziato a causa dei veti posti da Cipro e dalla Francia di Sarkozy, sostenuta dalla Germania della Merkel. S Secondo Giustino «questo blocco confermò l’ambiguità dell’atteggiamento europeo nei confronti della Turchia, considerata da sempre come un baluardo prima contro la minaccia sovietica ed ora come un argine per le conseguenze delle tragedie mediorientali – come quella dei rifugiati – anziché come partner politico di dialogo senza pregiudizi. E ciò contribuì a suscitare forte delusione e diffidenza non solo nel governo turco, ma anche nell’opinione pubblica».

Nonostante la chiusura europea, Erdoğan continuò a implementare riforme in linea con la direzione degli anni precedenti. Come sottolinea Giustino, l’agenda europeista dell’AKP di Erdoğan ha le sue origini nel fatto che «quando fondò il suo partito il presidente turco era convinto che quello europeista era un percorso necessario per evitare che il partito avesse lo stesso destino dei precedenti partiti di ispirazione islamista, tutti sciolti dalla corte costituzionale e dai regimi militari. L’abbandono dunque dell’agenda antioccidentale comportava l’apertura all’Unione Europea». Fin dalla sua fondazione nel 2001, quindi l’AKP fece proprio l’europeismo che era già ben radicato nella società civile. Senza voler entrare nel merito di quali fossero le reali intenzioni del leader turco sin dalla fondazione e nei primi anni della sua escalation politica, Giustino precisa che «l’AKP era costituito da persone che credevano realmente nel progetto europeo» e che «l’errore dell’Unione è stato quello di chiudere la porta arrestando così il processo riformatore di Ankara, che ha determinato una forte regressione autoritaria e la repressione di ogni voce critica e di opposizione del paese».

Mariano Giustino descrive come è cambiata la percezione di Europa in Turchia e come si sono evolute le posizioni del partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) al governo dal 2002, e del maggior partito di opposizione: «Vi è da dire che il maggior partito d’opposizione all’AKP è il Partito Repubblicano del Popolo (CHP), creato da Atatürk, il padre della patria che fondò la Turchia moderna ispirandosi al mondo occidentale. Dopo la sua morte il partito, che ha tra i suoi principi cardine quello del populismo e del nazionalismo, ha finito con lo sviluppare una forte diffidenza verso l’UE. Ma dal 2010, con il nuovo corso apertosi con la presidenza di Kemal Kılıçdaroğlu, una percezione positiva in questo partito verso l’UE ha cominciato a crescere. L’ala secolare-nazionalista del CHP (chiamata “ulusalcılar” cioè, appunto, “i nazionalisti”) era sempre stata scettica nei confronti dell’Unione Europea, in particolare per quanto riguardava le richieste dell’UE di implementare le libertà fondamentali, inclusa la libertà di espressione. Soprattutto se ciò significava criticare Atatürk e dare più diritti alle minoranze, quella curda in particolare. È bene precisare che il CHP è stato, almeno fino agli eventi di Gezi Park, un partito anti-curdo, e sotto l’aspetto dei diritti civili, della libertà d’espressione, dei diritti di genere e delle minoranze non era per nulla diverso da un qualsiasi partito di destra nazionalista turco. È stato proprio con la segreteria di Kılıçdaroğlu che questo partito ha assunto un’impronta sempre meno nazionalista, assumendo connotati più vicini alla socialdemocrazia e più sensibili ai diritti delle minoranze e ai diritti civili.

Si può dire quindi che vi è stato un lento e progressivo riorientamento della visione politica del CHP, che con Kemal Kılıçdaroğlu sta iniziato un nuovo corso inclusivo e democratico, non ancora concluso ma che sta mostrando una maggiore apertura alle istanze di libertà e che sta vedendo irrompere sulla scena politica una nuova generazione di leader portatori di valori e retorica inclusiva e aperta alle istanze della complessa e variegata società turca. Il sindaco di İstanbul, Ekrem İmamoğlu, è l’esponente più autorevole di questo nuovo corso.

Tornando ai primi anni 2000, le richieste dell’UE di evitare l’ingerenza del potere militare nella politica, di trovare una soluzione non violenta al problema curdo e di migliorare i diritti delle minoranze non musulmane furono considerate dal CHP come richieste che avrebbero indebolito l’unità politica secolare della Turchia, lascito del kemalismo. A causa dell’intransigenza del CHP, le riforme dell’AKP che avevano l’obiettivo di raggiungere gli standard europei resero Erdoğan una stella in crescita in Europa, in quanto aveva contribuito a screditare ulteriormente il CHP, arroccato su una visione politica anacronistica che impediva alla Turchia di fare un salto di qualità in termini di democrazia e di stato di diritto necessario per l’ingresso nell’UE.

Attualmente molti europei credono che i cittadini turchi si stiano distanziando dall’UE. Ma nonostante la durata e la gravità della crisi tra la Turchia e l’Europa, secondo le recenti rilevazioni della prestigiosa Kadir Has University di İstanbul, il sostegno all’adesione all’UE rimane ancora fermamente superiore al 55% con punte oltre il 60%. Secondo l’inchiesta condotta dal Centro per l’economia e sugli studi di politica estera EDAM, ciò è dovuto al fatto che i cittadini turchi che ora sostengono l’Unione Europea non sono più quelli che l’avevano sostenuta nel periodo dell’agenda europeista dell’AKP. Negli anni 2000, il sostegno all’adesione tra gli elettori dell’AKP era molto alto, rifletteva quindi la retorica fortemente europeista di Erdoğan. Nel contempo, la percentuale di sostegno all’adesione tra gli elettori del CHP era molto più bassa, riflettendo la retorica politica di questo partito. Mentre le relazioni tra l’UE e la Turchia diventavano sempre più strette, alcuni membri del CHP mostrarono un crescente risentimento nei confronti dell’UE, affermando che l’Europa in questo modo avrebbe finito per sostenere una presunta “agenda segreta dell’AKP” che prevedeva l’erosione del sistema secolare della Turchia. In sostanza, il CHP sosteneva che la politica europeista di Erdoğan era come un cavallo di Troia che doveva servire a indebolire il potere militare per avere campo libero per mettere in atto la sua agenda islamista.

La situazione ora è cambiata, si è completamente capovolta. Il sostegno nell’elettorato dell’AKP all’adesione ora è pari a circa il 30%, addirittura dello stesso ordine di grandezza di quello dei votanti del Partito del Movimento Nazionalista (MHP), noto per essere il partito più antieuropeista in Turchia, perché appunto ultranazionalista. Al contrario, il sostegno all’adesione tra gli elettori del CHP è ora superiore al 70% e potrebbe aumentare ulteriormente, perché gli elettori del CHP vedono ora l’UE come partner nella difesa della democrazia, dei diritti dell’uomo e dello stato di diritto in Turchia. Ciò è sorprendente perché, secondo tutte le inchieste condotte nell’ultimo decennio sulle relazioni Turchia-UE, le motivazioni dei cittadini a favore dell’ingresso nell’Unione Europea erano prevalentemente di natura economica; adesso invece sembra che, per buona parte di coloro che sono favorevoli all’adesione, il valore della democrazia, dello Stato di diritto e dei diritti umani sia non più trascurabile rispetto alla motivazione economica» conclude Giustino nella sua analisi.

Un punto di svolta delle relazioni euro-turche si ebbe nel 2015. Quattro anni di guerra in Siria favoriscono l’innesco di una terribile crisi migratoria e umanitaria, ed è proprio in questo frangente che la Turchia e l’Unione Europea si trovano in condizioni ottimali per dialogare e producono un accordo che, paradossalmente, le allontana in modo sostanziale l’una dall’altra: incapace di strutturare una politica di accoglienza, l’Europa ha bisogno che il flusso di persone si blocchi e, per ottenere ciò, necessita la Turchia al di fuori dei suoi confini. In questo contesto le due parti arrivarono alla Dichiarazione UE-Turchia sui rifugiati di marzo 2016. Sebbene non sottoposto al vaglio del Parlamento Europeo e non recante lo status di ‘trattato’ – esiste infatti unicamente sotto forma di comunicato stampa – questo accordo rappresenta una pietra miliare della politica migratoria europea e ne ha strutturato i caratteri in modo originale e sostanziale. Elaborata in risposta alla catastrofe umanitaria che ha caratterizzato la crisi migratoria del 2015, la Dichiarazione prevedeva uno scambio incentrato sulla gestione e sul blocco dei migranti da parte della Turchia, che l’UE si impegnava a supportare in termini finanziari e a cui prometteva benefici politici. Come si legge nel testo dell’accordo:

L’Unione europea ha avviato l’erogazione dei 3 miliardi di EUR a titolo dello strumento per i rifugiati in Turchia per progetti concreti e ha proseguito i lavori riguardo alla liberalizzazione dei visti e ai colloqui di adesione […]. Il 7 marzo 2016, inoltre, la Turchia ha convenuto di accettare il rapido rimpatrio di tutti i migranti non bisognosi di protezione internazionale che hanno compiuto la traversata dalla Turchia alla Grecia e di ri-accogliere tutti i migranti irregolari intercettati nelle acque turche.

Fin dai primi tempi l’accordo ha suscitato reazioni negative da parte di studiosi, società civile e organizzazioni internazionali. In occasione del primo anniversario del patto, il Direttore per l’Europa di Amnesty International John Dalhuisen definiva il patto un «palese fallimento» che violava in diversi punti il diritto internazionale e rappresentava quindi una «macchia sulla coscienza collettiva dell’Europa». Sebbene la posizione di Amnesty sia stata e continui ad essere condivisa, supportata e approfondita da molti punti di vista attraverso report e studi (Alpes et al.; Roman et al.; Beirens e Clewett;; Benvenuti e Toygür; Danisi; e altri), al contrario il Consiglio europeo e la Commissione europea hanno mostrato a più riprese di apprezzare l’implementazione dell’accordo. In effetti quest’ultimo è riuscito fin da subito a ridurre l’afflusso di migranti in Europa, consentendo anche di riportarne una parte in Turchia adducendo come causa di rifiuto della domanda d’asilo presentata in Grecia il riconoscimento della Turchia come ‘primo paese di asilo’ o ‘paese terzo sicuro’, concetti oggetto degli articoli 35 e 38 della Direttiva europea sulle procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale. Tutte le critiche sollevate, infatti, vertono sull’accusa di violazione da parte dell’Unione Europea del principio di non respingimento o non-refoulement, pilastro fondamentale del diritto internazionale.

Riconsiderando l’annuncio di Erdoğan alla luce di queste informazioni, né si capisce meglio la ratio: in qualche misura, infatti, si può dire che proprio l’accordo del 2016 abbia conferito alla Turchia un ruolo cruciale nella gestione dei flussi migratori verso l’Europa e, di conseguenza, una leva socio-politica non indifferente su quest’ultima. Come sottolinea Jennifer Rankin su The Guardian, ora che il presidente turco afferma di aver aperto le porte dell’Europa si viene a smascherare il fallimento dell’UE nel concordare una politica comune in materia di migrazione durante gli ultimi quattro anni. È tuttavia necessario notare che Erdoğan detiene di fatto molto meno potere negoziale nei confronti dell’UE rispetto a quanto voglia far apparire ed emerga generalmente dai media europei. Mariano Giustino conferma questa posizione, rilevando che l’autorità e la leadership del presidente turco sono più deboli di come vengono solitamente presentate sia all’interno del proprio paese che nei confronti dell’Europa. Il giornalista nota ad esempio che dalle proteste di Gezi Park in poi, «per ottenere un successo elettorale Erdoğan ha dovuto fare ricorso a una politica reazionaria e ad atti che non corrispondono ai criteri di trasparenza ed equità della competizione politica». Inoltre, sulla questione rifugiati Erdoğan «non ha la chiave per inondare l’Europa di milioni di profughi. La buona parte dei 3.6 milioni di rifugiati siriani sono integrati, hanno i figli che vanno a scuola e all’università. Al confine greco ci sono gli immigrati clandestini afghani, iracheni, pakistani e africani destinati a essere rispediti nei loro paesi».

Cosa stanno facendo la Grecia e l’Unione Europea in risposta alla crisi?

Di fronte alla crisi apertasi dopo l’annuncio di Erdoğan, la Grecia e tutta l’Unione Europea dietro di lei hanno risposto in modo netto e univoco: le frontiere europee sono rimaste sigillate e le forze armate greche hanno cominciato immediatamente a respingere i migranti dall’altro lato del fiume Evros, il fiume che percorre quasi interamente i 120 km di confine terrestre che separa la Grecia dalla Turchia e che costituisce il luogo più tragico di questo episodio. Secondo Foreign Policy, infatti, almeno 32.000 migranti sono stati arrestati al confine di terra greco. La gravità della situazione è decisamente inaudita a causa della decisione della Grecia, annunciata dal premier Mitsotakis dopo il Consiglio per la sicurezza nazionale di domenica 1° marzo, di sospendere la registrazione delle domande d’asilo per chi entra irregolarmente nel paese e di espellere immediatamente senza registrazione le persone appena arrivate. Questo fatto può costituire una grave violazione di varie norme europee e internazionali sul diritto all’asilo, come l’Articolo 18 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e la Convenzione di Ginevra sui Rifugiati del 1951. Questa crisi, quindi, è una lente utile attraverso cui analizzare il triangolo che interconnette i contesti europeo, turco e siriano. Dal canto suo, in questa occasione l’Unione Europea non ha che ribadito la strategia su cui, attraverso la nuova Commissione Von Der Leyen, impronterà l’agenda migratoria. L’esternalizzazione della questione migratoria, ovvero il principio secondo il quale la gestione dei migranti viene affidata a paesi terzi, rimane infatti il pilastro fondante delle politiche migratorie europee, reiterando il rischio di subordinazione degli obiettivi umanitari e di sviluppo a quelli securitari (Hill 2017, p. 366-379). Secondo questo paradigma, la questione della sicurezza interna diventa prioritaria rispetto al garantire i diritti fondamentali dei richiedenti asilo. Inoltre, come sottolinea Giustino, sebbene Erdoğan sia riuscito in qualche misura a mettere nuovamente in allerta i governi europei sulla questione rifugiati, l’UE non asseconderà la richiesta turca di prendere posizione al suo fianco nel conflitto siriano né è dato per scontato che rinegozierà le condizioni della Dichiarazione del 2016 in termini più favorevoli per la Turchia (i negoziati intanto sono stati avviati con la visita di Erdoğan a Bruxelles di inizio marzo: qui il comunicato stampa ufficiale del Consiglio europeo). Infine, oltre a testimoniare un’altra volta brutalmente l’incapacità dell’Europa di essere realmente unita e solidale nell’ideare e implementare una politica comune d’asilo, la crisi deve riportare al centro dell’attenzione globale la questione siriana e le responsabilità che la comunità internazionale tutta deve riconoscere di avere in relazione al contesto siriano, di cui la tragedia di Idlib in corso è solo l’ennesimo atto di vergogna.

L’articolo è stato precedentemente pubblicato su «Il Bradipo Federalista», blog della sezione GFE di Bologna. Autrice originale del pezzo è Virginia Sarotto, con la collaborazione di Ignazio Pardo e Federico Tosi.

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