La sfida politica dell’Industria 4.0

, di Massimo Contri

La sfida politica dell'Industria 4.0

Industria 4.0 è il termine utilizzato più frequentemente per identificare l’evoluzione nella digitalizzazione del settore manifatturiero, guidata da quattro macro fattori: il sorprendente aumento del volume di dati disponibili, la connettività tra le persone e tra le macchine, nuove forme di interazione uomo-macchina, come i sistemi di realtà aumentata, ed il miglioramento nel trasferimento delle istruzioni digitali al mondo fisico, come la robotica avanzata e la stampa 3D.

Per anni, le aziende più dinamiche hanno perseguito i principi della “Lean Production” (produzione snella identifica una filosofia industriale ispirata al Toyota Production System, che mira a minimizzare gli sprechi fino ad annullarli, ndr) introducendo notevoli miglioramenti di produttività e maggior flessibilità. Il successo di questo approccio fa sì che ulteriori miglioramenti siano sempre più marginali e difficili da raggiungere. Allo stesso tempo, rimanere redditizi e competitivi nell’attuale contesto aziendale globale, richiede un miglioramento continuo in termini di produttività, qualità, agilità e livelli di servizio forniti ai clienti. Una pressione che la competizione internazionale tende a radicalizzare.

L’Italia, che è riuscita nella terza rivoluzione industriale, quella che ha visto l’automazione di molti processi produttivi, a conquistare la posizione di seconda manifattura d’Europa e ad essere riconosciuta tra le principali economie industrializzare al mondo, rischia di perdere velocemente molte posizioni in classifica se non riuscirà a generare ecosistemi innovativi in grado di reggere il nuovo livello della competizione mondiale.

Il mondo è mutato negli ultimi trent’anni e, con la crisi finanziaria ed economica che ha colpito l’occidente, ne abbiamo preso pienamente consapevolezza. Ora tocca a noi cambiare. Il modello venti-ottanta, secondo il quale il 20% della popolazione mondiale consumava l’80% delle risorse naturali del pianeta, grazie a un processo cumulativo di iper-consumo e iper-indebitamento, è finito. La crisi dalla quale facciamo fatica ad uscire non è una congiuntura passeggera, ma la conseguenza di questo cambiamento nell’equilibrio di distribuzione della ricchezza e del potere mondiale. Nuovi e grandi paesi chiedono maggiori risorse ed una vita migliore e sono pronti a competere a livello mondiale per ottenerle. Si tratta di un progresso per l’umanità, ma anche di una grande sfida per le aziende ed i cittadini europei. Una sfida che possiamo affrontare con successo se saremo in grado di far fronte fino in fondo il cambiamento culturale che ci viene richiesto.

Questo processo di globalizzazione dell’economia insieme ai cambiamenti portati dalla nuova rivoluzione industriale sta infatti cambiando profondamente l’organizzazione delle aziende, il tempo e lo spazio del lavoro. Le competenze necessarie per rimanere attivi all’interno del sistema produttivo sono cambiate drasticamente e richiedono un continuo aggiornamento. L’Europa si trova innanzi ad una sfida esiziale: mantenere la propria industria sulla frontiera tecnologica ma al tempo stesso costruire un nuovo processo di formazione delle persone e dei cittadini educandoli al nuovo, a ciò che destabilizza e spaventa l’individuo.

La reazione dei cittadini di fronte alla complessità è molto spesso quella di cercare protezione dentro i confini dello stato nazionale. I partiti politici per raccoglierne il consenso invocano tempi e strumenti assolutamente inadeguati al nuovo contesto mondiale che si è creato. Basta guardare il profilo delle imprese che hanno consentito all’Italia di raggiungere il record di surplus della bilancia commerciale negli ultimi anni per capire quanto inadeguate possano essere idee come quelle sostenute dai no-euro o da quei partiti che invocano il ritorno alla sovranità nazionale o l’uscita da accordi di libero scambio lungamente negoziati. Oggi, per fare un esempio tipico dell’industria italiana che ha saputo affrontare con successo gli anni della crisi, dentro una linea di produzione automatica di beni di consumo venduta ad un produttore indiano si mescolano ingegneria italiana insieme ad automazione tedesca, software americano e componenti cinesi. L’esistenza di standard europei di qualità e di sicurezza è inoltre una delle principali chiavi di accesso ai mercati mondiali insieme al lungo lavoro di apertura e regolamentazione degli stessi portato avanti negli anni dalla Commissione europea e dalle organizzazioni internazionali.

Affrontare la complessità dello sviluppo economico all’interno della cornice dello stato nazionale presenta inoltre un’ulteriore criticità. La nuova sfida posta dalla rivoluzione digitale è quella di essere globali e locali allo stesso tempo, ovvero di essere in grado di soddisfare la domandi di beni, che ha sempre un origine locale, e la conseguente capacità produttiva, che ha invece un legame sempre più forte con gli ecosistemi in grado di generare innovazione. Emblematico è il caso di un’azienda globale di abbigliamento sportivo che è riuscita a spostare la produzione sempre più vicino ai clienti abbandonando l’idea della produzione confinata solo nei paesi asiatici a basso costo di manodopera. Questa mossa cambia il tradizionale ciclo di produzione in paesi a basso costo e la successiva spedizione nei negozi del mondo dove avviene il consumo dei beni. Man mano che diventano disponibili robot più economici, più veloci e più flessibili, la produzione di prodotti come scarpe e abbigliamento può essere localizzata vicino ai clienti, anche in località ad alto costo come l’Europa. Il tempo di adeguamento del prodotto al mercato, i tempi di consegna, i costi di trasporto e l’attenzione al cliente migliorano sensibilmente quando si sfruttano le nuove opportunità offerte dalla digitalizzazione. Un nuovo modo di produzione che spinge gli stati che appartengono ad aree geografiche omogenee a competere tra loro per attrarre competenze e siti produttivi delle aziende. Sta già succedendo per automobili ed elettrodomestici: oggi la scelta della localizzazione produttiva è sempre meno tra Europa e Far-East e sempre più tra Italia e Slovenia, tra Francia e Polonia e così via. All’interno dell’Europa tale fenomeno, se non affrontato attraverso una miglior regolamentazione fiscale e se non mitigato da nuove politiche sociali europee di sostegno alla disoccupazione e alla formazione, rischia essere una nuova forza disgregatrice che alimenterà le forze di coloro che predicano il ritorno a inconsistenti sovranità nazionali.

Industria 4.0 pertanto non è soltanto un cambiamento tecnologico che modifica i tempi ed i modi di produzione ma un nuovo paradigma che ha un impatto complessivo sull’organizzazione della società e dei sistemi politici. Coinvolge non solo il sistema industriale ma anche i territori, l’interconnessione e la mobilità delle persone, l’interscambio tra università, amministrazioni pubbliche ed aziende, i sistemi di formazione e di protezione dei lavoratori. È la nascita di ecosistemi fertili alla generazione ed allo sviluppo della creatività e delle competenze che, per avere successo, si devono porre l’obiettivo di coinvolgere una larghissima parte della società e non soltanto un piccolo gruppo di addetti ai lavori. Industria 4.0 presuppone pertanto anche la necessità di ripensare un nuovo ruolo per la politica a livello locale, nazionale ed europeo.

Ed è proprio a livello europeo che rischiamo di avere strumenti non adeguati. Per sostenere i cambiamenti che sono necessari per mantenere le nostre aziende competitive serve accelerare il completamento del mercato unico, una maggior armonizzazione a livello fiscale tra i paesi europei, un avanzamento sull’unione bancaria e nel mercato dei capitali, investimenti europei massicci in ricerca e sviluppo per rimanere sulla frontiera tecnologica e strumenti adeguarti per sostenere le riforme necessarie a livello nazionale includendo un sussidio europeo per la disoccupazione e la formazione dei lavoratori.

1. Articolo pubblicato su L’Unità Europea n3 Anno 2018

2. Fonte immagine Pixabay

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