Lo Stato (incompleto) dell’Unione

, di Giulio Saputo

Lo Stato (incompleto) dell'Unione

Vorrei aprire citando un articolo di Giovanni De Mauro dove si ricorda, con assoluta sorpresa, l’assurda mancanza di indignazione rispetto allo scandalo dei Panama Papers: “la verità, in sé, non porta alla libertà. Al contrario, non c’è niente di più deprimente che capire come funziona il mondo e al tempo stesso avere l’impressione di non poter fare nulla per cambiarlo”. A onor del vero, l’articolo si chiude con una qualche speranza di riscatto per i cittadini europei che sembrano poter arrivare a capire come «ribellarsi» ma non come attivarsi per invertire l’attuale tendenza ad una inevitabile crisi sistemica.

Da quanti decenni sappiamo come va davvero il mondo ma non ci smuoviamo, intrappolati nelle nostre lenti politiche nazionali?

In realtà, l’incapacità di dare delle regole internazionali alla finanza è un problema che ci trasciniamo in Europa da quando è scoppiata la crisi dei debiti sovrani (regalo degli USA). Ad oggi, l’Unione è ancora effettivamente quasi in stagnazione. Resta un osservato speciale delle borse di tutto il mondo: 19 politiche economiche per una sola moneta. Uno «Stato» senza un bilancio dotato di risorse proprie e senza un ministro per l’Economia, chiaramente privo di una qualsiasi forma di politica economica se non monetaria (ringraziando la BCE di Draghi e tralasciando il povero piano Juncker).

Bastano pochi altri esempi per capire in che situazione di pericoloso stallo ci troviamo. Dopo l’assurda e terribile strage di migranti al largo delle nostre coste, il 3 ottobre 2013 scorso, chi non ricorda l’ondata di proclami altisonanti che sembrava poter smuovere l’Europa intera? Che fine ha fatto tutta quella solidarietà? Quali sono state le risposte della politica europea dopo quasi tre anni? La sospensione del sistema-Schengen in molti paesi? Triton? Un piano mai attuato di ripartizione dei migranti tra gli Stati membri?

Ma sì, esternalizziamo i costi umani dell’emigrazione sulla Turchia e noi restiamo in un folle stato emergenziale continuo! Pensiamo di poter andare avanti davvero così per i prossimi dieci anni?

E poi abbiamo il terrorismo internazionale che ci ricorda quanto siamo vulnerabili senza una polizia federale e una procura europea. Chi affianca questa istanza alla regolamentazione del flusso dei migranti secondo un approccio «securitario», sbaglia. Un terrorista che fa parte di un’organizzazione internazionale dotata di ingenti risorse, non ha bisogno di far un viaggio della speranza per far un attentato (anche perché molto spesso risiede già nel paese o nello stato vicino a dove si attiverà come parte di una cellula o «cane sciolto»). Forse il problema è molto più simile a quello delle mafie: senza avere informazioni o possibilità di effettuare indagini su un piano sovranazionale non si combatte ad armi pari con organizzazioni così fluide.

Ci troviamo così a riflettere sull’esistenza stessa dell’Unione europea: siamo disposti a mettere in pericolo il progetto politico più importante dell’ultimo secolo pur di salvaguardare il feticcio della sovranità nazionale e non adottare soluzioni comuni ai problemi che la realtà ci pone.

Forse possiamo chiedere di più alla politica e a noi stessi.

Tutti i principali problemi che l’Europa non riesce ad affrontare sono chiaramente legati dall’incapacità di governare i processi sovranazionali con le nostre attuali istituzioni nazionali in crisi. Insomma, sono la semplice rivelazione che ci ostiniamo a proporre soluzioni inefficaci, schiave del sistema intergovernativo, a problematiche che richiederebbero una politica unica e federale.

Per quanti anni ancora porteremo avanti questo modo di fare politica miope e anacronistico? Probabilmente pochi, nel bene e nel male. Di qui al 2019 l’Italia, l’Europa e il mondo cambieranno inevitabilmente volto. Poco da fare, siamo a una svolta vera e propria sul continente che rappresenta anche la prima potenza commerciale globale. Tutti parlano di metter mano ai trattati per cercare di fare una qualche riforma istituzionale tra le elezioni che si terranno in Francia e in Germania nel 2017 e quelle del Parlamento europeo del 2019.

Nel frattempo gli europei dovrebbero capire che quella per salvare il continente dalla deriva euroscettica, populista e xenofoba è la loro battaglia. Sia chiaro che non sto parlando di utopie, l’assetto istituzionale europeo cambierà con o senza la scesa in campo dei cittadini europei.

Poniamo alcuni riferimenti concreti anche solo per il 2016 in corso su cui influiscono direttamente la crisi economica, l’emergenza migranti e l’allarme sicurezza:
 Elezioni con rischio prevalenza di leader populisti ed euroscettici alle presidenziali in Austria (II turno il 22 maggio).
 Rischio Brexit il 23 giugno.
 La Spagna ancora senza governo fino al 26 giugno.
 A settembre si torna al voto in due Länd tedeschi.
 Rischio Grexit ancora non scongiurato a causa delle difficili trattative in corso sulle misure di austerità.

Il punto è che perché le velleità di vero cambiamento e partecipazione degli europei non si trasformino in mero «ribellismo», occorre che si orientino verso un obiettivo preciso: la battaglia per la riforma istituzionale in senso democratico e federale dell’Europa.

Credo sia chiaro a tutti ormai che la battaglia politica non possa esser più racchiusa in vincoli nazionali o nei canoni di destra e sinistra tradizionali, ma che ormai si svolga secondo quella profetica teorizzazione di Spinelli, Rossi e Colorni che scrissero ben 75 anni fa nel Manifesto di Ventotene: «La linea di divisione fra partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono ancora come fine essenziale della lotta la conquista del potere politico nazionale e quelli che vedranno finalmente come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno prima di tutto come strumento per realizzare l’unità internazionale».

Nel «deserto postideologico» zizekiano sembra che gli europei siano destinati a non avere una qualche identità (visto che quella nazionale ormai è in crisi) se non quella del consumatore globale. Non possiamo essere d’accordo, perché l’Europa stessa potrebbe rappresentare un possibile modello di risposta identitaria sovranazionale se solo avesse gli strumenti per funzionare. In un momento in cui tutti i sistemi di integrazione sociale nazionale e di società multiculturale sembrano essere in crisi rispetto al rafforzarsi del fondamentalismo religioso, la narrazione di un’Europa come comunità di destino è determinante. Gli europei possono fare davvero qualcosa per il mondo e per cambiare le loro stesse vite, scendendo in campo dalla parte dei progressisti in questo confronto tra chi vuole andare avanti e chi preferisce tornare all’oscurantismo del Secolo passato. «Unire l’Europa per unire il mondo», dare un modello di risposta condivisa alle problematiche globali: quello deve essere l’obiettivo specifico del futuro impegno politico. La società civile deve scendere in campo unita, perché dall’altra parte il fronte dei reazionari pronti a distruggere il sistema europeo e tutto quel che significa è già in corso di organizzazione.

Occorre assecondare le proposte che provengono dalla politica, come quella di Verhofstadt al Parlamento europeo o della Boldrini alle camere basse di numerosi parlamenti nazionali, di Padoan e Gentiloni ai governi dell’eurozona, ma possiamo e dobbiamo spingerci oltre. Se vogliamo essere gli artefici di un vero cambiamento dobbiamo andare più avanti, verso un’alleanza di tutte le forze sociali che richieda chiaramente ai governi dell’eurozona un’Europa più giusta, davvero unita e democratica. Non possiamo arrivare a quell’anno di svolta che è il 2017 perdendo pezzi di Unione o con il filo spinato a dividerci, dobbiamo invece essere pronti a confrontarci con chi lotterà per abbattere il sogno di pace nato dalle ceneri della II Guerra Mondiale. Gli europei tutti dovrebbero ormai avere la chiara consapevolezza del loro destino, non esistono deleghe per questo impegno.

Nei prossimi anni, saremo tutti responsabili per il mondo che lasceremo alle prossime generazioni.

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